Aldo Baratta, Assegnista di ricerca Sapienza Università di Roma
Ricerca di ateneo Sapienza (Progetti grandi) 2022-24 n. RG122181643E2D85
1. Breve storia del concetto di transcultura
Il concetto di cultura ottiene una fisionomia paradigmatica a partire dagli studi di Johann Gottfried Herder (1744-1803) intorno al linguaggio e allo spirito nazionale. In Ideen zur Philosophie der Geschichte der Menschheit (1784–1791), Herder isola tre elementi nucleari della culturalità: un elemento unificatore, atto a sancire un’affinità di interessi tale da costituire una società; un elemento folkloristico, che consente un senso di appartenenza sulla base di un patrimonio nozionistico condiviso; un elemento separatore, attraverso il quale l’identità viene delineata rispetto a una frontiera con il diverso, con l’alterità. Nel primo caso, la cultura funge da proiezione della vita privata su quella pubblica, in modo tale da far riverberare ogni azione come espressione di una collettività e mai di un’individualità. Nel secondo, la culturalità agisce come manifestazione etnica: la cultura è sempre cultura di un popolo, di una specifica comunità situata e storicizzata come insieme di riti, tradizioni, credenze, tecniche, etc. Nell’ultimo caso – il più importante –, Herder evoca l’occorrenza di un’autonomia della cultura, di un contrassegno utile a cernere le singole culturalità; solo discernendo il “nostro” dal “loro” è possibile osservare cosa caratterizza davvero un popolo. È evidente come la filosofia di Herder derivi dagli umori nazionalistici e sovranisti tipici dell’Europa di quegli anni; la cultura è anche propaganda politica, affermazione di un potere statale univoco.
La storia socioculturale contemporanea ha prontamente contraddetto quanto teorizzato da Herder, confutando la pertinenza dei tre elementi congetturati in virtù di una netta incomplementarità strutturale nei confronti di quanto è effettivamente accaduto. È stata soprattutto la componente separatista a non aver trovare riscontro negli eventi che si sono susseguiti: i confini, tanto politici quanto identitari, sono stati cancellati dalla permeazione causata dalle migrazioni e dalle comunicazioni immediate, in una cartografia rinnovata che prescinde dalle soglie geografiche delle nazioni.
Già Nietzsche aveva intrapreso un percorso teorico opposto a quello purista di Herder ipotizzando un «soggetto-moltitudine»[1], un individuo composito ed eclettico «grato di ospitare […] non una sola anima immortale, ma molte anime mortali dentro di sé»[2]; il singolo io prolifera in un caleidoscopio di coscienze difformi, piuttosto che settare la propria essenza tramite l’esclusione di ciò che non lo afferisce. Nietzsche coglie le trasformazioni storicosociali dell’Europa protonovecentesca, preannunciando una mescolanza culturale abitabile soltanto da un cittadino sovranazionale e nomadico, da soggetti «Heimatlosen»[3] («senza Patria»), svincolati dalle loro origini – etniche, politiche, ambientali, etc.:
Dietro a tutti i primi piani morali e politici […] si svolge un immenso "processo fisiologico" che va divenendo sempre più fluido, un processo di omogeneizzazione degli Europei, un loro crescente distacco dalle condizioni alle quali devono la loro origine razze vincolate dal punto di vista del clima e delle classi, una loro progressiva indipendenza da ogni "milieu determinato", che tenderebbe nel corso dei secoli a imprimersi con esigenze eguali nel corpo e nell'anima - la lenta ascesa, quindi, di un tipo umano essenzialmente sovranazionale e nomade, il quale, per esprimerci in termini fisiologici, possiede come sua esemplare caratteristica un "maximum" nell'arte e nella capacità d'adattamento.[4]
La dissoluzione delle nazioni verso una loro commistione feconda è il futuro dell’Europa, uno scenario politico nel quale vengono invalidate ideologie quali il patriottismo o il nazionalismo – «Che valore potrebbe avere, ora che tutto punta a interessi più ampi e comuni, stimolare questi logori sentimenti egoistici?»[5] – a favore di una «dipendenza spirituale»[6] che è occasione di accrescimento culturale.
Anche Wittgenstein ha avuto modo di smentire quanto scritto da Herder, avanzando una definizione di cultura che anticipa ciò che sarebbe stato configurato in seguito come transculturalità. Secondo la sua disamina, l’omogeneità è una pretesa inconcludente allorché le sostanze culturali fermentano nella condivisione delle pratiche di vita, quindi nella pluralità di approcci al reale. L’obiettivo di Wittgenstein è una rivoluzione nella pragmatica dell’incontro con l’altro: la cultura si conforma non soltanto nell’accettazione del diverso, quanto innanzitutto nell’integrazione con quell’estraneità.
Quanto individuato da Nietzsche e progettato da Wittgenstein viene realizzato dai movimenti postcoloniali del Novecento, pionieri di quel sovvertimento epistemico che porterà alla fine del secolo a una piena ibridazione della culturalità. È in seno agli studi postcoloniali che il sociologo cubano Fernando Ortiz conia il lessema «transculturación» all’interno di Contrapunteo Cubano del Tabaco y el Azúcar (1940), studio che indaga la cultura afrocubana come campione del processo di selezione e rielaborazione culturale coniugato da un gruppo subordinato nei confronti di un gruppo dominante. Dal neologismo è importante ricavare due lezioni: il superamento del concetto di «aculturación» – sua base lessicale – e della relativa visione colonialista e verticistica del contatto culturale, secondo la quale una cultura marginale può svilupparsi solo assimilando gli attributi della cultura politicamente legittimata; la carica dinamica insita nel suffisso –ación, che rimanda a una sinergia attiva di costante alterazione reciproca.
Il vocabolo «transculturación» viene ereditato e battezzato in indirizzo critico-teorico da Wolfgang Welsch, assurgendo simultaneamente a descrizione degli spazi socioculturali attuali e a normativa analitica per confrontarsi con quest’ultimi. La «transculturality», ricorrendo alla metafora di un disegno reticolare contigua al pensiero rizomatico[7], concepisce una forma culturale che abbandona l’uniformità sclerotica intesa da Herder, ormai inammissibile nella miriade di differenze – etniche, sessuali, economiche, politiche, ambientali, etc. – contemporanee. Le culture, lungi dall’essere bolle impermeabili di identità, sono incroci aperti alla contaminazione, meccanismi mobili che intersecano stati multipli.
Secondo Welsch, la transculturalità è l’unico dispositivo ermeneutico consono alla condizione epistemica della società globalizzata, poiché evoluto rispetto ai due modelli utilizzati in precedenza: la multiculturalità e l’interculturalità sono entrambi insufficienti dal momento che confermano il paradigma herderiano, senza essere in grado di scavalcare la rappresentazione della cultura come sistema discreto. L’interculturalità, pur avallando la comprensione vicendevole tra le culturalità al fine di evitarne i conflitti, incappa nel cortocircuito radicale di immaginare le culture come fatti autosufficienti e isolanti. A sua volta la multiculturalità, circoscrivendo una convivenza – per quanto possibile pacifica – di entità culturali intrinsecamente dispari, inciampa nello stesso errore e promuove barriere tra le soggettività: è dal concepimento multiculturale della società che nasce il particolarismo proprio delle esperienze di ghettizzazione e fondamentalismo. È allora il prefisso -trans a operare efficacemente come topografia dell’intersezione: dove -inter e -multi, sottintendendo una discrepanza insanabile, attestano una culturalità arretrata rispetto alle circostanze odierne, -trans presuppone una sospensione della dicotomia tra identità e alterità, ospita un tertium quid nel quale le istanze culturali si confondono, trasgrediscono i loro perimetri, si collocano in mezzo senza tendere ad alcuna estremità. La transcultura non si limita a puntualizzare l’interconnessione e la molteplicità delle culture, bensì sollecita al loro attraversamento. Il prefisso -trans vince l’impostazione fattualistica debito-credito di origine positivista, secondo la quale una cultura “inferiore” acquista a senso unico aspetti di quella “superiore”: la dialettica dello scambio si fa confusa, impossibile da tradurre in termini economici e matematici. La transculturalità è la conseguenza genuina della complessità delle culture moderne, talmente concatenate da risultare indistinguibili, ben oltre l’osservanza declinata dall’interculturalità e la coesistenza declinata dalla multiculturalità; è solo in questo termine che viene reiterata la forza dinamica e metamorfica propria dell’originaria «transculturación» di Ortiz. In un cosmo transculturale «there is no longer anything absolutely foreign»[8] e «there is no longer anything exclusively ‘own’ either»[9]: la cultura è sempre in movimento, ignora le polarità e si compromette a ogni interazione; esiste solo “nell’oltre”, “nell’al di là”, come tramite. Oggi, la cultura non può essere che transcultura: «I believe […] that transculturality is almost a given»[10].
In questo modo, la transculturalità funziona anche come amplificatore del particolare sull’universale: contingenze prima incidentali quali i diritti femminili o la missione ecologica diventano argomento comune, fuoriuscendo dal contesto nazionale e acquisendo un respiro che permette loro di essere affrontati con una consapevolezza multiprospettica. Non si tratta solo, come accadeva nell’orizzonte teorico interculturale e multiculturale, di riconoscere e ossequiare le esperienze del proprio vicino, perché quelle esperienze riguardano oggi la totalità senza più alcun dislivello di attinenza.
Inoltre la transculturalità, grazie alla propria inclinazione interstiziale ed elastica, influenza non solo il piano macroculturale ma anche quello microculturale, determinando cioè la formazione dell’individuo oltre che quella della comunità. Per Welsch le «cross-cutting identities»[11] non sono più peculiarità di soggetti eccezionali, posture di rare coscienze illuminate, bensì la psicologia quotidiana di cittadini di una realtà sovranazionale esposti a traiettorie empiriche plurime. Pertanto la transculturalità deve coinvolgere anche l’interiorità come lavoro di coordinazione tra suggestioni culturali di diversa provenienza che confluiscono in una personalità proteiforme e flessibile, allergica ai pregiudizi. Emerge così una dimensione di responsabilità maggiore rispetto alla mera tolleranza interculturale e multiculturale: la transculturalità è l’educazione al grado di estraneità presente in ciascuno di noi, la piena ammissione della nostra natura eteroclita, dell’associazione tra la polifonia che musica allo stesso tempo il mondo esterno e l’io interno.
Un ultimo avviso che Welsch elargisce concerne l’eventuale omogeneizzazione culturale che il proposito aggregante della transculturalità finirebbe, paradossalmente, per avverare: se tutte le culture procedessero verso una commistione, la scomparsa delle proprietà rispettive convaliderebbe proprio quella cultura compatta e rigida che Herder pronosticava. Ciononostante, il compito di produttore di diversità dell’esercizio transculturale persiste giacché l’accorpamento tra culture non avviene per sovrapposizione, ma per un intreccio ramificato che dà esiti di volta in volta inediti. La paura verso una civiltà planetaria uniformata è esattamente ciò che alimenta le narrazioni fondamentaliste, votate al mantenimento delle particolarità – etniche, religiose, politiche, economiche, etc. – attraverso una loro accentuazione aggressiva. La transculturalità non scongiura la resistenza all’omologazione globalista, potendo veicolare sia il cosmopolitismo che l’affiliazione locale, sia la pulsione al cambiamento che la fedeltà alle proprie origini; in quello spazio di tensione tra le culture ognuno è libero di formularsi in base ai propri desideri e alle proprie esigenze, senza dover temere una perdita della propria originarietà.
2. Diramazioni teoriche
Come dichiarato da Dagmar Reichardt, «il termine ombrello transculturalismo è, filosoficamente parlando, ancora in fase di definizione e sistemazione»[12]. Dopo essere stata assestata da Welsch, la transculturalità è detonata in un panorama teorico eterogeneo che contempla vari spunti argomentativi, impieghi empirici e metodologie critiche; piuttosto che limitarsi alla ratifica di un unico criterio epistemologico, accoglie stimoli per nuovi «concetti operativi»[13], nuove strategie di interpretazione del circostante. La transcultura è una rinegoziazione degli assunti culturali, e come tale combatte la neutralità attraverso l’imprevedibilità: una lente ermeneutica di matrice transculturale non opera mai a priori, bensì, in un collaudo congiunturale, problematizza il suo stesso campo di applicazione. La transculturalità, a dispetto di un paesaggio teorico che si contrae spesso in un dogmatismo cattedratico, si comporta da cantiere aperto ai lavori, da laboratorio di ricerca sperimentale, ed è perciò un’opportunità per calibrare più correttamente il pensiero teorico in senso lato. La rilevanza di una scuola quale quella transculturale è chiara nel momento in cui, come fa Reichardt, si adopera il neologismo «transmodernity»[14] quale nuova categoria storico-epistemica successiva alla postmodernità; la realtà attuale non è concepibile se non attraverso degli strumenti duttili e trasversali come quelli promessi dalla transculturalità. Contestualmente, Ugo Fracassa esorta a non scadere in un «eccesso di teoria»[15], in una feticizzazione accademica – tipica degli Area Studies statunitensi – che potrebbe danneggiare il pensiero transculturale pervertendolo in astrattismo asettico; bisogna impedire che il discorso critico scavalchi e trascuri i fenomeni, esagerando e ipertrofizzando. La soluzione è accompagnare la riflessione critica transculturale a una riflessione metacritica atta a tarare lo stato dell’arte della teoria, i suoi difetti e le sue prerogative, a revisionare gradualmente il suo vocabolario, a mettersi sempre in discussione. In base a quanto detto, il posizionamento della transculturalità all’interno dell’organigramma teorico contemporaneo consente di sondare le facoltà stesse della teoria – qualsivoglia sia il suo orientamento – in una episteme sempre più mutevole e difficile da decifrare. Tutto ciò rinvia alla morfologia di una teoria creola che, come auspicato da Yue Daiyun[16], risponde ai propri quesiti sommando le esperienze e le altre teorie accumulate nel tempo con una risoluzione multiprospettica. Questa teoria plurima farebbe in modo che il particolare contenga sempre il generale, come una transcultura che incorpora in sé elementi culturali distanti.
Una prima attuazione teorica dalla transculturalità è inerente all’indagine politica, allo studio delle logiche di potere. Una cornice transculturale risulta necessaria quando si ha a che fare coi sistemi di produzione e le direttive di mercato che presiedono il mondo globalizzato: senza un’intelligenza reticolare è arduo intendere la rete analoga che gestisce i rapporti di forza – economica e non – tra le nazioni. Anne Ring Petersen, ad esempio, ha avuto modo di investigare il mercato dell’arte globale mostrando il ruolo dell’esperienza migratoria nei confronti della creazione estetica[17]. O ancora, la transculturalità fa da antidoto alle narrazioni tossiche di stampo gerarchico che regolano le relazioni con soggettività culturali marginalizzate. In una visione dell’Altro ancora plagiata dal retaggio coloniale, l’atteggiamento transculturale, inserendosi in mezzo tra un privilegiato e un subalterno e annullandone l’antinomia, può contrastare i vari «imperial gaze»[18] e «white gaze»[19] di cui molti teorici hanno accertato la sopravvivenza. La transculturalità annichilisce l’idea stessa di un rapporto unidirezionale, di un potere lineare e verticistico che implica un vincitore e un vinto, un esportatore di cultura e un importatore: la transcultura perturba le classifiche, amalgama i contributi al dialogo culturale senza asimmetrie e soluzioni di continuità. La teoria transculturale può diventare allora essa stessa logica di potere, esaudendo, come scritto da Silvia Contarini, estetiche della resistenza, espressioni oppositive[20]: le bhabhiane «coscienze negate»[21] possono irrompere nel discorso dominante questionandone l’autorità grazie al venir meno di un contatto culturale pervaso dalla dialettica della conquista, della sopraffazione totale dell’altro.
Data la sua pertinenza, la transculturalità permette di studiare meglio la migrazione al di fuori delle tradizionali misure accademiche, arrivando a dubitare dell’efficacia stessa del termine quando impiegato come etichetta esemplificativa. La marcatura «della migrazione», intrappolata come avvisato da Franca Sinopoli in una «polarizzazione interna alla storia letteraria […] tra autori/autrici autoctoni/e e autori/autrici migranti»[22], rischia infatti di atomizzare il campo letterario e di ridimensionare la scrittura migrante in letteratura ancillare, feticizzata in un sottogenere recluso rispetto alla totalità della produzione estetica. Solo restaurando il vocabolario critico si può restaurare la critica stessa, il cui compito, appurata l’obsolescenza di una funzione legittimante nei confronti di una voce ormai perfettamente integrata alla narrativa contemporanea, consiste piuttosto in un’analisi dei testi condotta con rigore scientifico e scevro di faziosità. Una scrittura rubricata come transculturale, e non come migratoria, ha il vantaggio di eludere la zavorra della ripetitività teorica, della cristallizzazione della ricerca intorno alle solite autrici e ai soliti autori e ai loro testi, e quindi di curare la sterilità dell’argomentazione ermeneutica: lo slittamento da una delimitazione sociobiografica a una puramente formale ed espressiva – propria, ad esempio, di qualificazioni transnazionali o translinguiste – restituisce una cognizione più esauriente delle opere. Definire uno scritto «migrante» significa difatti far risaltare la sola condizione socioanagrafica dello scrittore, riducendo l’intera opera alla sua biografia; definire uno scritto «translingue», viceversa, pone il riflettore sull’operazione testuale che l’autore o l’autrice ha scelto di effettuare, a prescindere dalla sua esperienza di vita. Come suggerisce Nora Moll[23], bisogna distinguere tra condizione e intenzione: l’essere un soggetto migrante non rende automaticamente il proprio scritto catalogabile in tal senso, se questa non è la finalità della volontà estetica. La transculturalità si istituisce così più che mai come una transculturazione, un’esecuzione semiotica conscia. Del resto, come nota Monica Schramm[24], l’ipermobilità contemporanea non può esser considerata un fenomeno eccezionale, non possiede più quel carattere di anomalia che la pratica migratoria manteneva fino allo scorso secolo: le migrazioni di ritorno, gli espatriati, gli studenti in Erasmus, le coppie miste, i soggiorni lavorativi, e tanti altri casi di mobilitazione abituale tracciano una episteme nella quale la parola migrazione non conserva più alcun beneficio ermeneutico. L’inanità è palese nella contingenza sempre più frequente di scrittori di seconda e terza generazione: la loro opera può essere transculturale – nel senso che aziona manovre comunicative, estetiche e discorsive atte a inscenare una contaminazione tra istanze culturali disomogenee –, ma non può esser certo inventariata come scrittura migratoria. Oltretutto, come evidenzia Fracassa parafrasando un celebre passo di Fortini riguardo alla presenza tematica dell’industria all’interno della letteratura italiana, la segregazione editoriale occulta la vera impalcatura tematica dei testi: la migrazione non è un tema a sé stante, bensì la manifestazione di un tema più grande – la globalizzazione, la fusione delle culture, etc.[25]
Alla luce di ciò, la teoria transculturale può offrire validi apporti allo studio del linguaggio. In Translingual Imagination Stephen G. Kellman, dopo aver vagliato gli autori «ambilingual» – coloro che hanno scritto in più di una lingua – dagli autori «monolingual translingual» – coloro che hanno scritto in una sola lingua, ma diversa da quella nativa –, presenta il translinguismo come «the phenomenon of authors who write in more than one language or at least in a language other than their primary one»[26]. Le premesse della transcultura si concretizzano in espressività: il testo risulta una zona di contatto tra nuclei linguistici difformi, nella quale l’identità autoriale si riformula in una voce che non gli appartiene e che deve sperimentarsi oltre la consuetudine. La politicità ne è diretta conseguenza: la combinazione tra le lingue scardina il paradigma monolinguistico preteso dall’egemonia culturale nazionalista, generando un idioma meticcio che dissesta la tradizione in effetti estetici inattesi. Susan Sontag approfondisce l’aspetto egemonico della lingua legandolo alla pratica della traduzione. In The World as India, la studiosa sottolinea il nesso tra traduzione e ricezione connaturando la prima con un’accezione quasi evangelica: tradurre un testo – come vuole l’etimologia – equivale a consegnarlo a un pubblico più ampio, dilatando la cerchia dei lettori possibili – senza omettere un certo investimento etico. Soprattutto, la traduzione è in grado di sfidare il prestigio e il peso politico delle lingue franche – oggi, l’inglese –, le quali corrono il rischio sia di lasciare scarti nell’accesso ai testi quando non tradotti, sia di impoverire la varietà stessa delle letterature a causa di un livellamento espressivo. Nella Torre di Babele della globalizzazione alcune lingue occupano un rango più elevato di altre, e hanno dunque maggiore visibilità; solo la traduzione può demolire tale gerarchia e costruire un terreno comunicativo comune, una translingua esperibile da chiunque[27]. Tuttavia, si deve prestare attenzione a non degenerare in quella circostanza editoriale che molti studiosi hanno denominato «traduttese»[28], vale a dire un linguaggio sovranazionale – e non transnazionale – che sfruttando la meta della ricezione massima e della comprensione assoluta confeziona una merce appetibile per il mercato globale perché appiattita su un unico registro espressivo, uniforme e dozzinale. Il risvolto estetico viene così castrato, sicché viene meno quell’energia frutto di diverse possibilità espressive e inerente a un vero translinguismo.
Un’ulteriore diramazione della transculturalità ha avuto modo di riaccendere un dibattito teorico mai davvero interrottosi – quello attorno alla World Literature/ Weltliteratur/ Littérature-monde. Sorpassato il punto di vista eurocentrico e borghese ancorato alla concezione di Goethe, la Weltliteratur mantiene una vitalità euristica di fronte alle escursioni delle letterature contemporanea al di fuori delle singole tradizioni nazionali. Il merito e le ragioni del suo vigore a duecento anni dalla sua denominazione derivano dal suo intento deprovincializzante: il quadro mondiale avversa l’ineluttabilità di un canone monolitico, composto da autori e – più raramente – autrici tutelati da un retroterra politico e linguistico centrale e colpevole di aver silenziato tutte le narrazioni provenienti dai margini della storia, ripensando così la letteratura come un fenomeno più inclusivo. Dalla fine del secolo scorso si sono succeduti numerosi tentativi di riammodernamento dell’ipotesi goethiana: Casanova[29], Damrosch[30], Moretti[31], Pizer[32], Prendergast[33] e molti altri hanno innescato una renaissance teorica nella quale la nozione è stata sviscerata e polemizzata, senza tralasciare un’attenzione ai risvolti pratici di una potenziale mondializzazione letteraria e il dialogo con gli scrittori stessi. Non sono mancate le critiche a una velata ambizione omogeneizzante né le preoccupazioni davanti al pericolo di una banalizzazione: la mondializzazione della letteratura può coincidere con la mondializzazione del mercato, favorendo una distribuzione dei testi basata su un apparato di quote estetico-azionarie e sulle oscillazioni delle mire editoriali piuttosto che su un’effettiva ricchezza delle voci scrittorie. Inoltre, un manifesto quale Pour une littérature-monde en francais (2007) non debella il centrismo letterario, giacché usufruisce comunque di strumenti di legittimazione del centro quali i premi letterari come unico modo per rivendicare il rilievo delle periferie. Deleteria è anche la dislocazione della lotta per l’egemonia letteraria dal piano politico a quello linguistico, dimenticando che le lingue sono riverberi di entità nazionalstatali e che un autentico canone mondiale non è mai un artefatto pacifico, bensì l’esito – come insiste Casanova[34] – di una competizione agguerrita tra forze politicamente e storicamente sproporzionate: la letteratura mondiale non sarebbe tanto una raccolta di testi ritenuti esteticamente adatti a rappresentare la mondialità, quanto piuttosto una modalità di lettura di quegli stessi testi, un codice di valore prestabilito e indotto. La World Literature può essere un congegno ermeneutico ottimale solo se trattato come un «problem» della teoria, non come un suo «object»[35]; è propedeutico rinunciare alla smania definitoria e sostituirla con un metodo operativo. Dalla convergenza tra World Literature e transcultura si origina allora anche una visione aggiornata del canone, inteso non più come un parametro di selezione sovrastorico, assoluto e dipendente alle sole leggi dell’estetica, ma in quanto costrutto storico-culturale, congetturabile solo a posteriori come conclusione calcolata di fenomeni di ricezione e sbilanciamenti di potere. Solo la transcultura, interrogando il canone da vicino, può rendergli la malleabilità e l’apertura che dovrebbe spettargli, esente sia della chimera della meritocrazia estetica che dei capricci del mercato.
Anche il femminismo di terza ondata, caratterizzato da una lotta alla discriminazione secondo un’ottica intersezionale, ha partecipato alla teoria transculturale decretando un indirizzo di ricerca fertile e incalzante nel cartografare gli abusi odierni con una portata davvero esaustiva. Oltrepassata la parzialità della seconda ondata, il movimento femminista mette in luce l’intersecamento delle oppressioni: il soggetto non è mai discriminato a causa di una sola minoranza e di una sola marginalità ontologiche, ma come incrocio tra multipli assi di violenza correlati a multipli assi di dominio. La transcultura interviene come piedistallo teorico inoltrando identità plurali ed estinguendo binomi desueti – bianco/nero, centro/periferia, omosessuale/eterosessuale, etc.; il femminismo trascende le prospettive situate e tendenziose delle precedenti reincarnazioni a favore di una disseminazione dei suoi coinvolgimenti. Se l’ontologia di un individuo rimanda a più identità culturali – come insegna la transculturalità –, allora è potenzialmente suscettibile a un egual numero di repressioni – una per ogni identità. D’altra parte, anche il femminismo può concorrere all’indagine transculturale, incoraggiando un esame più accurato dei sistemi di potere coloniali in virtù dell’affinità di questi ultimi al sopruso patriarcale – in un’omologia di logiche verticistiche e alterizzanti. Le diseguaglianze di cui sono vittime le donne non sono fronteggiabili senza una postura transculturale; solo adottando una «transcultural feminist solidarity»[36], un sostegno transnazionale tra gli oppressi, è possibile sconfiggere il patriarcato globalizzato sul suo stesso campo di battaglia, facendo corrispondere l’estensione delle prevaricazioni e l’estensione delle resistenze.
Recentemente Welsh, in un’intervista condotta da Reichardt, ha rimarcato l’adiacenza tra transdisciplinarietà e transculturalità[37]. La contemporaneità, nel suo groviglio di relazioni, non può essere dipanata se non da un conforme «network-design of all things», una collaborazione tra studiosi di diversi settori di ricerca che esorcizza l’autonomia disciplinare e incentiva l’adesione tra prospettive lontane. In un’accademia sempre più atomizzata, schiacciata sul modello neoliberista dell’egotismo e della competizione imprenditoriale, la transculturalità reclama il disfacimento della compartimentazione e un dialogo cooperativo costante che fa delle differenze un profitto ermeneutico.
Analoga alla necessità di un’angolazione transdisciplinare troviamo la necessità di un’angolazione transmediale. Dopo l’espansione mediale di inizio millennio è diventato impossibile analizzare i prodotti culturali prediligendo un medium rispetto a un altro; va perciò sorpassato l’antico preconcetto che vede la letteratura come la piattaforma narrativa principale e più degna di attenzione critica. L’avvento dei social network ha incrementato a livelli potenzialmente infiniti le possibilità espressive delle istanze culturali, rendendo ciascun utente capace di produrre significazioni che vanno documentate senza intellettualismi anacronistici. Merita un accenno anche l’importanza dell’adattamento in un ecosistema narrativo liquido come quello odierno: la transcodificazione da un medium artistico all’altro è sempre una valorizzazione delle differenze, una tradizione di significati che vanno incontro a una conversione da osservare al fine di scandagliare la semiosi culturale di un mondo iperconnesso.
Davanti a una galassia di testi, campioni e modelli in continuo aumento, le banche dati online sono diventate un’iniziativa sempre più perseguita e urgente. Tra le maggiori, si segnalano: BASILI-LIMM; Europeana; Project Gutenberg; Progetto Manuzio; Gallica; Biblioteca italiana; H-Net Humanities and Social Sciences; European Thematic Network Projects; Postcolonial Europe; Polyphonie – Mehrsprachigkeit_Kreativität_Schreiben; etc.
Alla luce di quanto detto, la transculturalità si conferma un pensiero analitico capitale del panorama contemporaneo, utile non solo a decodificare i movimenti culturali ma anche a risanare una disciplina quale quella teorica minacciata da fissità e perentorietà. La transcultura, attraverso la vivacità intellettuale e la postura ibridizzante che la caratterizzano, stimola incessantemente nuove applicazioni, nuove strategie ermeneutiche frutto di scambi di idee e azioni disomogeneizzanti; le numerose diramazioni teoriche e argomentative sopraccitate ne sono un fulgido esempio.
[1] Friedrich Nietzsche, Nachgelassene Fragmente. Juli 1882 bis Herbst 1885, in Id., Sämtliche Werke. Vol. 11, Deutscher Taschenbuchverlag, Munich 1980, p. 650.
[2] Id., Menschliches, Allzumenschliches II, in Id., Sämtliche Werke. Vol. 2, Deutscher Taschenbuchverlag, Munich 1980, p. 386.
[3] Id., Die fröhliche Wissenschaft 377 (1882).
[4] Id., Jenseits von Gut und Böse 242 (1886).
[5] Id., Nachgelassene Fragmente. Herbst 1885 bis Anfang Januar 1889, 2. Teil: November 1887 bis Anfang Januar 1889, in Id., Sämtliche Werke. Vol. 13, Deutscher Taschenbuchverlag, Munich 1980, p. 92.
[6] Ibidem.
[7] Cfr. Gilles Deleuze, Félix Guattari, Mille plateaux, Minuit, Paris 1980.
[8] Wolfgang Welsch, Transculturality - the Puzzling Form of Cultures Today, in Mike Featherstone, Scott Lash (a cura di), Spaces of Culture: City, Nation, World, Sage, London 1999, p. 198.
[9] Ibidem.
[10] Dagmar Reichardt, Wolfgang Welsch on Transdisciplinarity, the “Network-Design” of all Things and the Venice Biennale 2022/23, «Novecento Transnazionale», n. 7, p. 81.
[11] Daniel Bell, The Winding Passage. Essays and Sociological Journeys 1960-1980, Abt Books, Cambridge 1980, p. 243.
[12] Dagmar Reichardt, Transculturalismo, «Treccani», 2020, p. 649.
[13] Cfr. Franca Sinopoli, Silvia Contarini (a cura di), Transculturalità: un concetto operativo in Europa?, Lithos, Roma 2023.
[14] Dagmar Reichardt, On the Theory of a Transcultural Francophony. The Concept of Wolfgang Welsch and its Didactic Interest, «Novecento Transnazionale», n. 1, 2017, p. 46.
[15] Ugo Fracassa, Migrans in fabula. Cronaca di un’approssimazione critica (per eccesso), in Daniele Comberiati, Chiara Mengozzi (a cura di), Storie condivise nell’Italia contemporanea. Narrazioni e performance transculturali, Carocci, Roma 2022, p. 40.
[16] Cfr. Yue Daiyun, Internazionalismo e nazionalità della letteratura comparata, in Armando Gnisci, Franca Sinopoli (a cura di), Manuale storico di letteratura comparata, Meltemi, Roma 1997, pp. 197-227.
[17] Cfr. Anne Ring Peterson, Migration into art: Transcultural identities and art-making in a globalised world, Manchester University Press, Manchester 2017.
[18] Cfr. E. Ann Kaplan, Looking for the Other. Feminism, Film and the Imperial Gaze, Routledge, London 1997.
[19] Cfr. Toni Morrison, Toni Morrison: The Pieces I Am, diretto da Timothy Greenfield-Sanders, 2019.
[20] Cfr. Silvia Contarini, Prefazione, in Alessandro Benucci, Silvia Contarini, Giuliana Pias (a cura di), Transculturalità e plurilinguismi nella letteratura italiana degli anni Duemila, Franco Cesati, Firenze 2022, pp. 9-10.
[21] Cfr. Homi K. Bhabha, The Location of Culture, Routledge, London 1994.
[22] Franca Sinopoli, Transnazionalismo e mondialità negli studi letterari, in Alessandro Benucci, Silvia Contarini, Giuliana Pias (a cura di), Transculturalità e plurilinguismi nella letteratura italiana degli anni Duemila, op. cit., p. 80.
[23] Cfr. Nora Moll, Il Novecento italiano in una retrospettiva transculturale, in Franca Sinopoli, Silvia Contarini, Transculturalità: un concetto operativo in Europa?, op. cit., pp. 9-23.
[24] Cfr. Monica Schramm, Jenseits der binären Logik: Postmigrantische Perspektiven für die Literatur- und Kulturwissenschaft, in NaikaForoutan, Juliane Karakayali, Riem Spielhaus (a cura di), Postmigrantische Perspektiven: Ordnungssysteme, Repräsentationen, Kritik, Campus Verlag, Frankfurt/ New York 2018, pp. 83-96.
[25] Cfr. Ugo Fracassa, Migrans in fabula, op. cit., p. 48.
[26] Steven G. Kellman, The Translingual Imagination, University of Nebraska Press, Lincoln 2000, p. IX.
[27] Cfr. Susan Sontag, The World as India. The St. Jerome Lecture on Literary Translation, «The Susan Sontag Foundation», http://www.susansontag.com/prize/onTranslation.shtml
[28] Cfr. Rosanna Morace, Autori dispatriati o opere apolidi?, in Carla Pisani (a cura di), Scritture del dispatrio. Atti del XX Convegno Internazionale della MOD, 14-16 giugno 2018, Edizioni ETS, Pisa 2020, pp. 51-69.
[29] Cfr. Pascale Casanova, La République mondiale des Lettres, Seuil, Paris 1999.
[30] Cfr. David Damrosch, What is World Literature, Princeton University Press, Princeton 2003.
[31] Cfr. Franco Moretti, Conjectures on World Literature, in Cristopher Prendergast (a cura di), Debating World Literature, Verso, London 2004, pp. 148-162; Id., More Conjectures, «New Left Review», n. 20, 2003, pp. 73-81.
[32] Cfr. John Pizer, Goethe’s ‘World Literature’ Paradigm and Contemporary Cultural Globalization, «Comparative Literature», n. 52, vol. 3, 2000, pp. 213-227.
[33] Cfr. Cristopher Prendergast, Negotiating World Literature, «New Left Review», n. 8, 2001, pp. 100-121.
[34] Cfr. Pascale Casanova, La République mondiale des Lettres, op. cit.
[35] Franco Moretti, Conjectures on World Literature, op. cit., p. 149.
[36] Yuanfang Dai, Bridging the Divide in Feminism with Transcultural Feminist Solidarity: Using the Example of Forging Friendship and Solidarity between Chinese and U.S. Women, in Elora Halim Chowdhury, Liz Philipose (a cura di), Dissident Friendships: Feminism, Imperialism, and Transnational Solidarity, University of Illinois Press, Champaign 2016, pp. 71–90.
[37] Cfr. Dagmar Reichardt, Wolfgang Welsch on Transdisciplinarity, the “Network-Design” of all Things and the Venice Biennale 2022/23, op. cit., pp. 74–83.
The international conference "'The Foreign Gaze': transculturation processes in contemporary European literatures and arts" will be held on Thursday 26 and Friday 27 September 2024, at Sapienza University of Rome, Faculty of Letters and Philosophy, room II. Below is the link to the program: https://news.uniroma1.it/26092024_1500
This book addresses a dual and crucial issue in Europe today: the need to reconcile on the one hand the traditional discourse on common heritage with cultural diversity, and on the other the imperative to develop strategies that allow everyone to live in a different context from that of origin. The studies collected here therefore focus on the reconfiguration of Europe, in which contacts between different cultures and their interactions are accelerating and multiplying, once the transcultural dimension of transmission phenomena has been established as an important political factor of change that requires new conceptual tools and new methods of investigation.
Link: https://transeu.parisnanterre.fr/publications/ (available in open access)